I coniugi acquistano un appartamento, che ricade nel regime di comunione legale del matrimonio. Dopo la separazione e il divorzio, uno di essi chiede la divisione dell’immobile, riportandosi al valore disuguale delle quote (71% e 29%), indicato nel verbale omologato.
Il Tribunale in prima istanza e la Corte in appello dichiarano la nullità dell’accordo, per contrasto con l’art. 210 cod. civ., che prevede l’inderogabilità della disposizione relativa all’uguaglianza delle quote.
A seguito di ricorso, la Corte di legittimità cassa la sentenza impugnata, affermando che, una volta sciolta la comunione legale per effetto della separazione consensuale, le parti possono, in virtù del principio di autonomia negoziale, disciplinare ogni aspetto economico patrimoniale dei loro rapporti, anche prevedendo la ripartizione di un bene in modo disuguale.
Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 3 febbraio 2025, n. 2546.
Sia il Tribunale che la Corte di merito hanno interpretato la vicenda sulla base del divieto contenuto nell’art. 210 c.c., secondo cui le norme della comunione legale relative all’uguaglianze delle quote non sono derogabili.
La Corte di legittimità ha superato il divieto, rilevando che esso vige fino a quando esista la comunione legale. Nel momento in cui la stessa è, secondo legge, sciolta, le parti riacquistano la propria libertà negoziale e possono regolare diversamente, nell’ambito di una valutazione complessiva, i propri rapporti.
Come recita l’art. 191 c.c., nel caso di separazione personale, la comunione tra coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato.
L’accordo di separazione, contenuto nel verbale omologato, è espressione dell’autonomia negoziale, istituto cui l’evoluzione giuridica, anche in tema di matrimonio e famiglia, riconosce crescente rilievo e, purché rispetti i limiti posti nell’interesse dei figli, può essere utilizzato come strumento per realizzare la comune volontà delle parti.
Tanto si verifica nella fattispecie in esame, nella quale la comunione legale risulta sciolta, con effetto ex tunc, dal momento dell’omologazione dell’accordo.
La Corte di Cassazione, con sentenza a sezioni unite n. 21761/2021, ha affermato che l’accordo tra le parti, reso in sede di separazione o divorzio, ha natura negoziale e può dar vita a pattuizioni atipiche meritevoli di tutela.
La medesima sentenza ha ricordato che negli accordi possono essere inserite clausole diverse da quelle facenti parte del contenuto necessario degli stessi.
Poste tali premesse, la Corte di legittimità ha affermato che l’accordo, in quanto inserito nel verbale di udienza, assume forma di atto pubblico e, ove preveda il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce titolo per la trascrizione, senza che la validità dei trasferimenti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadano nella comunione legale, essendosi ormai verificato lo scioglimento della stessa, con l’ulteriore conseguenza della validità delle clausole che riconoscano a uno dei coniugi la proprietà esclusiva di un bene (e, per diretta conseguenza, anche delle clausole che determinano in misura diversa le quote di proprietà di ciascuno).
I principi enunciati dalle Sezioni Unite trovano conferma, sul punto che qui rileva, nella giurisprudenza precedente, secondo la quale gli accordi di separazione personale tra i coniugi rispondono a uno spirito di sistemazione dei rapporti tra le parti, avente una sua tipicità, e rientrano nell’ambito di una sistemazione solutoria complessiva.
Da ricordare anche la recente sentenza della Cassazione civile n. 8193/2024, la quale, dopo aver ricordato la differenza tra comunione legale e comunione ordinaria, ha affermato che, una volta sciolta la prima ex art. 191 c.c., venendo meno le necessità funzionali originarie, ciascuno dei coniugi può cedere a ogni titolo la propria quota.
Con la sua iniziativa giudiziaria, la parte aveva altresì chiesto la divisione del bene e il riconoscimento di un’indennità per l’occupazione della sua parte (29%) dell’immobile, istanze che i giudici di merito avevano respinto, poiché la consulenza tecnica aveva accertato che il bene non era commerciabile, in ragione degli abusi edilizi riscontrati. In ordine a tale questione, la Corte di legittimità non si è ovviamente pronunciata, cassando integralmente la sentenza e rimettendo gli atti al giudice di appello, in diversa composizione. L’incommerciabilità non può essere tuttavia posta in dubbio, atteso l’interesse pubblico posto a base del principio.
(Ex plurimis: Cass. Sez. Un. 25021/2019).