Studio Legale Pietrangeli Bernabei
07-03-2024

Mobbing

Risarcimento del danno



Corte di cassazione - Sezione Lavoro - Ordinanza 13 settembre-19 ottobre 2023 n. 29101

Scatta il ristoro del danno se il giudice accerta condotte vessatorie e mortificanti di straining

LA MASSIMA
Lavoro e formazione - Mobbing - Straining - Intento vessatorio - Sussistenza - Risarcimento del danno. (Cc, articolo 2087 e 2013; Cpc, articoli 360, comma 1, n. 4 e 112 e 113)
Nelle ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno all′integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice è tenuto a valutare se le condotte denunziate, pur non essendo accomunate da un intento "ritorsivo", possono essere considerate vessatorie e mortificanti per il lavoratore e, come tali, ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro.

Il via al risarcimento per il lavoratore prescinde dall′intento persecutorio

La condotta posta in essere, anche isolatamente, costituisca un fatto illecito ex articolo 2087 del Cc da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore. Lo hanno affermato i giudici della sezione Lavoro della Suprema corte con l′ordinanza 19 ottobre 2023 n. 29101.

Il fatto
Con rituale sentenza, la Corte d′Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava il diritto del ricorrente all′inquadramento superiore nel quinto livello Ccnl di categoria, condannando - contestualmente - la società resistente al pagamento delle differenze retributive e del Tfr, salvo compensare per due terzi le spese di lite. Condannava - in ogni caso - la stessa resistente alla rifusione delle competenze legali. Nel contempo, l′adita Corte d′Appello negava la fondatezza della richiesta risarcitoria per mobbing formulata dal lavoratore sulla scorta della responsabilità della società datrice di lavoro per violazione dell′articolo 2087 del Cc, oltre che dell′art. 2103 c.c. Avverso il provvedimento reso dal giudice del gravame, il ricorrente adiva la Corte di Cassazione.

La tutela delle condizioni di lavoro
Come è noto, la salute del lavoratore è considerata dall′ordinamento nel suo significato più ampio di integrità della persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli concernenti il benessere fisico, sia quelli riguardanti la vita di relazione, la dignità e l′equilibrio psichico; del resto, i moniti e le garanzie costituzionali di cui agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione trovano un preciso sbocco nel limite dell′esercizio dell′iniziativa economica privata che, ai sensi dell′articolo 41, comma 2, della Costituzione, è - appunto - subordinato alla tutela della sicurezza ed al rispetto della dignità umana dei lavoratori, essendo la salute - nella sua accezione onnicomprensiva - riconosciuta dall′ordinamento come diritto fondamentale del cittadino-lavoratore oltreché interesse primario della collettività (articolo 32 della Costituzione). L′obbligo di prevenzione di cui all′articolo 2087 del Cc impone, infatti, al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata ma, anche, tutte le altre misure che, in concreto, siano richieste dalla specificità del rischio. La norma civilistica appena richiamata - fortemente incisiva, tanto da rappresentare il fulcro dell′intero sistema prevenzionistico - si caratterizza - dunque - per la presenza di tre parametri fondamentali ai quali il datore di lavoro è tenuto a conformare la propria azione preventiva, ossia: la "particolarità del lavoro", l′"esperienza" e la "tecnica". In sintesi, mentre il paradigma della "particolarità del lavoro" comprende tutti quegli elementi che caratterizzano una determinata attività lavorativa e che direttamente incidono sulla specifica pericolosità, il criterio dell′"esperienza" si sostanzia, invece, nell′obbligo di adozione di tutti quegli accorgimenti e misure che abbiano già dimostrato la loro efficacia, comprendendo - altresì - il quid pluris maturato da ciascun comparto aziendale nel settore o nelle attività per le quali risulti tecnicamente in grado di operare. Di estremo rilievo è, infine, il requisito della "tecnica", in forza del quale l′articolo 2087 del Cc impone al datore di lavoro un obbligo di aggiornamento costante sugli sviluppi tecnologici e sui sistemi di protezione e tutela più evoluti, tali da rendere, tempo per tempo, più sicura l′organizzazione del lavoro nel suo complesso. Proprio muovendo da quest′ultimo parametro, la giurisprudenza ha , difatti, elaborato il noto principio della "massima sicurezza tecnologicamente possibile", inteso come obiettivo al quale il datore di lavoro dovrebbe costantemente mirare. Emblematico, a questo riguardo, è l′orientamento recentemente "sposato" dal Supremo consiglio (Cassazione penale, sezione IV, 14 ottobre 2008 n. 38819), secondo il quale "l′art. 2087 c.c. (...) stimola obbligatoriamente il datore di lavoro (...) ad aprirsi a nuove acquisizioni tecnologiche", imponendogli di ottemperare tanto alle regole "scritte", quanto "alle norme prevenzionali che una figura-modello di "buon imprenditore" è in grado di ricavare dall′esperienza, secondo diligenza, prudenza e perizia". Parimenti espressive di questa vis espansiva che connota il precetto di sicurezza sancito dal citato articolo 2087 del Cc sono le ipotesi di tutela accordate dalla giurisprudenza in relazione, ad esempio, al danno da "fumo passivo" (si veda Corte Costituzionale 20 dicembre 1996, n. 399, in NGL, 1996, 852) nonché al danno da "mobbing" 8cfr, Cassazione civile, sezione Lavoro 17 giugno 2011, n. 13356; Cassazione civile, sezione Lavoro, 26 marzo 2010 n. 7282; Cassazione civile, sezione Lavoro, 8 aprile 2011 n. 8058). Coerentemente all′appena menzionato orientamento, l′esimio Consesso ha, altresì affermato che il datore di lavoro, quale garante ultimo dell′incolumità psicofisica dei lavoratori, non deve limitarsi a predisporre le misure di sicurezza ritenute necessarie ma, al contrario, deve attivarsi e controllarne con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza (Cassazione penale, sezione IV, 11 agosto 2010, n. 31679; Cassazione penale, sezione IV, 8 ottobre 2008 n. 39888). Di estremo interesse è, pure, una pressoché recente pronuncia di merito (Tribunale di Milano, 14 aprile 2011, n. 269), secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad espletare tutti gli adempimenti atti a garantire la sicurezza dei prestatori di lavoro anche fuori del territorio italiano.

La conflittualità in ambito lavorativo
L′ambiente di lavoro si presenta come una complessa ragnatela di relazioni, in cui gli aspetti organizzativi ed i rapporti interpersonali dei "protagonisti" possono dar - tuttavia - luogo a dinamiche che, se non adeguatamente gestite, tendono a rivelarsi lesive non solo per la salute del lavoratore ma, altresì, per la salute dell′azienda medesima. In questo "quadro" un fattore relazionale importante nei rapporti che sconfinano in conflitto è - nondimeno - rappresentato dallo stress, il quale - nella sua declinazione di stress lavorativo - si inserisce tra i cosiddetti "rischi psicosociali". Favoriscono - del resto - l′insorgenza di situazioni di stress e/o di disagio non solo l′intensità, la complessità e la durata della mansione assegnata ma, anche, le componenti fisiche, emotive e sociali presenti nell′ambiente lavorativo. L′espressione "stress occupazionale" si utilizza - infatti - pure per indicare il vissuto emozionale negativo di una persona sul posto di lavoro quando tale esperienza è accompagnata da modificazioni comportamentali, cognitive e biochimiche che scaturiscono dall′incapacità di fronteggiare la situazione personale e/o organizzativa; parimenti, possono concorrere a degenerare l′ambiente nel quale si sviluppano le relazioni lavorative anche situazioni di dequalificazioni gravi o prolungate, di privazioni di mansioni, d′isolamento relazionale o professionale. Trattasi sovente e, comunque, di "circostanze" riconducibili a veri e propri "attacchi" da cui deriva una responsabilità datoriale per violazione degli obblighi che le norme costituzionali (articoli 2, 32 e 41, comma 2, della Costituzione) e quelle del codice relative alle clausole generali di responsabilità (articoli 2087, 2049, 1175 e 1375 del Cc) attribuiscono al datore di lavoro.

La tutela del benessere del lavoratore
La protezione del benessere psicologico e della personalità del dipendente costituisce - dunque - un preciso dovere del datore di lavoro a garanzia di un ambiente lavorativo sereno, in grado di favorire il pieno sviluppo delle professionalità. Non a caso, ribadendo il principio contenuto nel più volte citato articolo 2087 del Cc, il Dlgs 09 aprile 2008, n. 81 ("Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro") - accogliendo la definizione di "salute" fornita dall′Organizzazione Mondiale della Sanità quale "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un′assenza di malattia o d′infermità" - ha esplicitamente collocato fra i "pericoli" lavorativi che ogni datore di lavoro è obbligato a verificare quelli "riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell′accordo europeo dell′8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza (...), nonché quelli connessi alle differenze di genere". Difatti, con l′accordo europeo 8 ottobre 2004, si è voluto migliorare la consapevolezza e la comprensione dello stress da lavoro da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti, attirando la loro attenzione sui sintomi che possono indicare l′insorgenza dei problemi - appunto - di stress lavorativo. Del resto, già oltre vent′anni fa sul "Corriere della Sera" veniva pubblicato un articolo dal titolo "Il mal d′ufficio, ultima trovata della filosofia buonista", nel quale si evidenzia - appunto - la difficoltà di distinguere ciò che poteva rientrare all′interno della normale conflittualità propria dell′ambiente di lavoro e ciò che, invece, aveva una precipua rilevanza giuridica. Sebbene nel 1998 si fosse soltanto all′inizio del lungo percorso giurisprudenziale che ha condotto alla tipizzazione del mobbing e delle fattispecie minori ad esso connesse, detto articolo risulta - oggi di assoluta attualità: comprendere, invero, quale sia il confine tra lo stress connaturato al rapporto di lavoro e quello, viceversa, scaturente da condotte datoriali illegittime è - invero - una questione di non scarsa importanza, che merita approfondimento ed un continuo aggiornamento, tenuto conto delle modifiche sociali e delle condizioni di vita dei lavoratori.

Le condotte datoriali illegittime
Il "mobbing" rappresenta - senza dubbio - la fattispecie di condotta datoriale vessatoria ai danni del lavoratore più conosciuta, sia per l′importante evoluzione giurisprudenziale che ne ha stabilito i presupposti, che per la risonanza sociale e mediatica che ha avuto nell′ultimo ventennio. Ciò nonostante, a tale "fama" non corrisponde, d′altra parte, un uguale riconoscimento da parte della giurisprudenza, costituendo per il lavoratore uno strumento complesso da utilizzare. Difatti e, considerato che la caratteristica principale del mobbing è la sistematicità e la durata degli atti persecutori e vessatori riconducibili all′interno di una strategia intenzionale, finalizzata all′emarginazione od alla vessazione da parte di un soggetto nei confronti di un altro, è - dunque - evidente che la dimostrazione di siffatte circostanze (oggettive e/o soggettive) sia pressoché diabolica per la vittima, la quale, nell′ambito di un rapporto già deteriorato, difficilmente potrà trovare prove e tantomeno testimoni. Peraltro, le condotte datoriali possono - altresì - tradursi tanto in adempimenti concreti (come demansionamenti ovvero l′avvio di molteplici procedure disciplinari totalmente pretestuose), quanto in comportamenti di per sé astrattamente legittimi che per le modalità con cui vengono esplicati o per le finalità ad essi sottese risultano illegittimi tanto da causare un danno ingiusto al lavoratore. In questi termini è - perciò - palese la difficoltà istruttoria imposta al lavoratore, tenuto - non solo a dar prova della condotta descritta - ma, anche, della gravità della medesima, circostanziandola esattamente in seno a un unico intento illegittimo posto in essere dal datore di lavoro. Tuttavia e, proprio in considerazione della molteplicità di situazioni ambientali e personali che ciascun lavoratore deve affrontare sul luogo ove presta la sua attività, la giurisprudenza ha, recentemente, ricostruito una fattispecie minore di mobbing, il cosiddetto "straining", definito come una condotta datoriale idonea a provocare nel lavoratore "una modificazione in negativo, costante e permanente della situazione lavorativa" (Cassazione civile, sezione Lavoro, 29 marzo 2018, n. 7844). Rispetto al mobbing si differenzia, pertanto, da un punto di vista quantitativo, essendo sufficiente una singola condotta illegittima, nonché per una minore estensione nel tempo della medesima condotta; esempio tipico, al riguardo, sono le ipotesi demansionamento finalizzate all′emarginazione del dipendente (cfr. Tribunale di Venezia, 31 luglio 2017 n. 480). La caratteristica comune alle due fattispecie è, invece, rappresentata dall′elemento soggettivo, ossia dalla volontà vessatoria e persecutoria del datore di lavoro che nel mobbing costituisce un presupposto indefettibile quale framework delle svariate condotte descritte, mentre nello straining è sufficiente che finalizzi il singolo comportamento illegittimo.

Mobbing: intento persecutorio e onere della prova
Come è noto, la fattispecie del mobbing non ha una sua autonomia normativa trattandosi di un′"ipotesi" di matrice prettamente giurisprudenziale che ha sostanzialmente mutuato la sua definizione dalla scienza medica. Infatti, ancora oggi il concetto largamente condiviso ed accettato è quello offerto dallo psicologo Harald Ege secondo cui il "mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica [...] in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni di alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori [...] con lo scopo di provocare nella vittima danni di vario tipo e gravità [...]". Recependo - dunque - le ricerche della scienza medica, la giurisprudenza (Cassazione civile, 17 gennaio 2014, n. 898; Cassazione civile, 28 agosto 2013, n. 19814; Cassazione civile, 31 maggio 2011, n. 12048) è andata elaborando un concetto di mobbing basato su alcuni elementi imprescindibili per la sussistenza della fattispecie, quali la sistematicità (Cassazione civile, 6 marzo 2006, n. 4774), la durata (Tribunale di Milano, 12 agosto 2006; Tar Abruzzo Pescara, 23 marzo 2007, n. 339; Tribunale di Ivrea, 4 dicembre 2006, n. 136; Tar Lombardia Milano, 21 luglio 2006, n. 1844), la molteplicità delle condotte (Cassazione civile 9 settembre 2008, n. 22858) e, infine, la persecutorietà del comportamento posto in essere dal mobber (Cassazione penale, 8 marzo 2006, n. 31413). Orbene, l′attenzione riservata al benessere del lavoratore ha - pertanto - esteso i confini della responsabilità datoriale. Tenuto a monitorare costantemente il dispiegarsi delle relazioni fra i dipendenti, questi è chiamato a rispondere - per inosservanza dell′obbligo di sicurezza di cui all′articolo 2087 del Cc - dei pregiudizi generati non solo dalle proprie condotte ma, altresì, da quelle realizzate dai dipendenti (che risponderanno delle proprie azioni ex articolo 2043 del Cc, in solido con il datore di lavoro) (Cassazione civile, sezione Lavoro, 9 settembre 2008, n. 22858; Cassazione civile, sezione Lavoro, 29 agosto 2007 n. 18262). Raramente, quindi, l′imprenditore andrà esente da responsabilità, a fronte di un accertato episodio di molestia psicologico-vessatoria, potendosene sottrarre soltanto fornendo la prova - quanto mai ardua - di essersi trovato nell′impossibilità di impedire l′evento. Ovviamente, l′accertamento della responsabilità garantisce alla vittima il diritto al risarcimento di tutti i pregiudizi sofferti, patrimoniali e non patrimoniali. Quanto ai primi, verranno ristorati, ad esempio, i danni causati dalla perdita della possibilità di promozione, dal demansionamento, dalla riduzione delle retribuzioni incentivanti o di risultato, ovvero delle spese mediche sostenute per curare le patologie derivate dalla vessazione. Quanto ai pregiudizi di carattere non patrimoniale - nonostante le sezioni Unite della Corte di cassazione (Cassazione, sezioni Unite, 11 novembre 2008, n. 26972 e 26973) - abbiano sancito nel 2008 l′unificazione delle diverse poste di danno - una consolidata corrente giurisprudenziale continua ad affermare la tripartizione in biologico, esistenziale e morale, ritenendola funzionale ad assicurare un adeguato ristoro di tutti i danni sofferti in conseguenza di condotte suscettibili di ledere distintamente la salute psicofisica, la personalità e la sfera relazionale dell′individuo.