Studio Legale Pietrangeli Bernabei
11-03-2024

Straining

Risarcimento del danno



Corte di cassazione - Sezione Lavoro - Ordinanza 13 settembre-19 ottobre 2023 n. 29101

Scatta il ristoro del danno se il giudice accerta condotte vessatorie e mortificanti di straining

LA MASSIMA
Lavoro e formazione - Mobbing - Straining - Intento vessatorio - Sussistenza - Risarcimento del danno. (Cc, articolo 2087 e 2013; Cpc, articoli 360, comma 1, n. 4 e 112 e 113)
Nelle ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno all′integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice è tenuto a valutare se le condotte denunziate, pur non essendo accomunate da un intento "ritorsivo", possono essere considerate vessatorie e mortificanti per il lavoratore e, come tali, ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro.

Lo straining quale mobbing attenuato
Benché spesso venga utilizzato il concetto di mobbing per definire ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro, nell′ambito del panorama giurisprudenziale sono andate delineandosi fattispecie ugualmente meritevoli di protezione. Lo straining nasce, infatti, proprio dalla necessità di voler dare una tutela (anche risarcitoria) a coloro che, pur subendo vessazioni determinanti danni fisici rilevanti, non possono godere di alcuna difesa perché i maltrattamenti subiti sono privi della frequenza prevista ovvero, più genericamente, perché non possono farsi rientrare nell′accezione di mobbing elaborata dalla dottrina e successivamente recepita dalla giurisprudenza, Il fenomeno dello straining, come quello del mobbing, viene anch′esso mutuato dalla scienza medica, a dimostrare che le vicende turbative della serenità del prestatore di lavoro all′interno dei luoghi in cui egli è chiamato a svolgere la propria opera professionale, integrano una di quelle fattispecie in cui il diritto e la psicologia si incontrano in un ambito nel quale una scienza si trova a non poter fare a meno dell′altra. Lo straining rappresenta, quindi, una condotta psicologica a metà strada tra il mobbing ed il semplice stress occupazionale, tant′è che lo straining può anche essere considerato quale naturale anticamera del mobbing; il datore di lavoro potrebbe, infatti, cominciare a vessare il proprio dipendente con comportamenti integranti lo straining per poi decidere di intensificare la forza lesiva e la frequenza dei propri atti discriminatori fino ad arrivare a porre in essere un vero e proprio mobbing attraverso la persecuzione psicologica, la violenza morale e l′emarginazione. Di contro, lo straining potrebbe essere facilmente scambiato per un semplice caso di stress occupazionale, se non fosse per il fatto che la vittima di solito lo percepisce come mobbing data l′alta componente di intenzionalità e di discriminazione.

Lo straining nella giurisprudenza
La definizione di straining elaborata in campo medico è stata recepita dalla giurisprudenza italiana attraverso l′ormai nota sentenza 21 aprile 2005, n. 286 pronunciata dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Bergamo. In quell′occasione il Giudice del Lavoro - chiamato a pronunciare sul caso di una lavoratrice posta in condizione di totale e forzata inattività per più di due anni - per corroborare il proprio convincimento si avvalse della consulenza dello psicologo Herald ege, il quale - sebbene abbia ritenuto sussistenti alcuni elementi costitutivi del mobbing (quali, l′ambiente lavorativo, la durata della conflittualità e la tipologia delle azioni di ostilità) arrivò - tuttavia - alla conclusione che il comportamento tenuto nei confronti della lavoratrice fosse stato ugualmente fonte di danno alla salute, riconducibile - appunto - al diverso fenomeno dello straining. Successivamente, nel 2007 una seconda pronuncia (Tribunale di Sondrio, sezione Lavoro, 07 giugno 2007), ritornò sull′argomento, affrontando questa volta il caso di un dipendente soggetto ad alcuni spostamenti di ufficio a breve distanza gli uni dagli altri, privato di collaboratori e di pratiche. Anche in tale fattispecie, ad avviso del Ctu nominato dal giudice del lavoro la strategia negativa attuata dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, pur non presentando le caratteristiche del mobbing per mancanza della frequenza e dell′adeguatezza delle azioni, si inquadrava - ad ogni modo - nel diverso fenomeno in esame. L′ultima e più importante pronuncia in materia di straining proviene dalla IV Sezione penale della Corte di cassazione (Cassazione penale, sezione IV, 28603/2013) che ha accolto il ricorso di un dipendente di banca, vittima di una serie di comportamenti vessatori esplicatisi nei suoi confronti (sottrazioni di mansioni di alta responsabilità in favore di un′altra dipendente, aspre ed ingiustificate critiche alla sua professionalità, convocazione di un incontro intersindacale finalizzato a criticare il suo operato proprio nel periodo in cui si era messo in ferie per riprendersi dalle dure critiche ricevute dai suoi superiori, svolgimenti di attività meramente esecutive e ripetitive con allocazione in un "vero e proprio sgabuzzino, spoglio e sporco"). Una situazione, questa, che oltre ad integrare una dequalificazione professionale ha - altresì - causato al lavoratore medesimo un′incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo di tempo superiore a 40 giorni. Le pronunce richiamate consentono, pertanto, di individuare i tratti caratteristici dello straining. Se, infatti, i tratti distintivi del mobbing sono la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni perpetrate ai danni della vittima da un singolo o da un gruppo di persone, nello straining, viceversa, i soggetti coinvolti sono destinatari di azioni ostili sporadiche ma con effetti simili al mobbing: problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare destinate a ripercuotersi sovente nella qualità di vita del soggetto. Nella pratica, però, il confine tra i due fenomeni può presentarsi meno definito, nonostante - ai fini persecutori - sia sufficiente nello straining che siano riscontrati uno scopo politico ed un obiettivo discriminatorio, ovverosia una scelta consapevole sia della vittima che delle vessazioni da perpetrare, laddove nel mobbing il disegno vessatorio realizzato deve racchiudere in sè i caratteri dello scopo politico e dell′obiettivo conflittuale, oltre che presentare una carica emotiva e soggettiva.Ad ogni buon conto, la condotta di straining - pur difettando del requisito della continuità nel tempo - può essere sanzionata, sia in sede civile ex articolo 2087 del Cc, sia in quella penale, ricorrendone - ovviamente - i presupposti.

I sette parametri per la sussistenza dello straining
Come evidenziato dalla sentenza Cassazione civile, sezione Lavoro, 19 febbraio 2016 n. 3291, sette sarebbero i requisiti dello straining, così riassunti:
1. ambiente lavorativo: lo straining, così come il mobbing, è un fenomeno che si sviluppa e prende forma nei luoghi di lavoro;
2. frequenza: a differenza del mobbing (che richiede comportamenti vessatori che si verificano almeno 1 volta al mese), nello straining può essere sufficiente anche una sola azione lesiva, purché le conseguenze risultino avere una durata costante;
3. durata: come nel mobbing il conflitto deve perdurare per almeno sei mesi;
4. tipo di azioni: azioni che debbono tradursi in condotte ostili come: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, mutamento di mansioni, attacchi alla reputazione, violenza e minaccia di violenza;
5. dislivello tra gli antagonisti: la vittima di deve essere cosciente della sua posizione di inferiorità rispetto al suo carnefice e tale soggezione può andare oltre quella naturale che normalmente si rinviene nel rapporto lavoratore/datore;
6. andamento secondo fasi successive: occorre, cioè, che la vessazione abbia almeno raggiunto l′isolamento sistematico;
7. intento persecutorio: è necessario, quindi, che venga riscontrato un obiettivo discriminatorio.

Straining e onere probatorio
Il principio della ripartizione dei carichi probatori valido per le cause di dequalificazione professionale, spesso associate a fattispecie di vero e proprio mobbing, vale anche nei casi di straining, vertendosi sempre in tema di responsabilità contrattuale ex articolo 2087 del Cc. Difatti, l′articolo 2087 del Cc, alla stregua del diritto alla salute previsto dall′articolo 32 della Costituzione e dei principi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del Cc, impone al datore di lavoro l′obbligo di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possono ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l′adozione di condizioni di lavoro non rispettose dei principi ergonomici, oltre - ovviamente - a comportamenti più gravi come il mobbing, lo straining, il burn out e/o lo stalking. Da ciò deriva la ripartizione dell′onere degli oneri probatori secondo le regole di cui agli articoli 1218 e 1223 del Cc, con conseguente parziale inversione dell′onere probatorio di cui all′articolo 2697, comma 1, del Cc per quanto attiene alla presunzione legale della colpa. Sicché, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale (Cassazione n. 1258/2015; Cassazione n. 826/2015; Cassazione, sezione Unite, n. 13533/2001), grava sul lavoratore l′onere di provare l′inadempimento ed il nesso causale tra questo ed il pregiudizio patito, mentre incombe sul datore di lavoro l′onere di provare l′assenza di colpa (si veda Cassazione n. 9209/2015; Cassazione n. 10441/2007). In altre parole, quindi, se il prestatore di lavoro è tenuto a dimostrare gli elementi che concretizzano la condotta vessatoria, viceversa il datore di lavoro dovrà - invece - provare che gli elementi di fatto dedotti non costituiscono, singolarmente considerati, altrettante violazioni dell′obbligo di protezione e, in ogni caso, che tali episodi non sono collegati tra loro da un finalismi orientato a vessare, discriminare ed accerchiare il lavoratore.

L′odierno intervento della Suprema Corte
Le argomentazioni sopra esposte consentono, dunque, di pervenire al principio - oggi - affermato dalla Corte di cassazione, giacché - al di là della tassonomia e della qualificazione delle condotte ostili poste in essere - ciò che rileva è che il fatto commesso - anche isolatamente - costituisca un fatto illecito da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore, quali la sua integrità psico-fisica, la sua dignità, la sua identità personale nonché la sua partecipazione alla vita sociale e politica. Conseguentemente, nessuna offesa di aspetti costituzionalmente salvaguardati potrà - perciò - restare senza la minima reazione a protezione rappresentata dal risarcimento del danno.