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19-06-2024
Cassa Integrazione illegittima
Tutela del lavoratore
Al lavoratore che è stato collocato in maniera illegittima in cassa integrazione spetta il risarcimento del danno professionale.
Secondo la Cassazione, il danno da inattività per collocazione in cassa integrazione non è affatto differente da quello relativo all′inattività discendente dalla violazione dell′art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili.
Si tratta di un principio evidenziato da una recente Ordinanza della Cassazione (n. 10267 del 16 aprile 2024) che ha sottolineato che la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazione di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta, in ogni caso, discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.
La Corte territoriale, rigettando l′appello principale della società datrice di lavoro ed accogliendo, invece, parzialmente, quello proposto dalla lavoratrice, aveva condannato la prima a corrispondere la somma equitativa pari al 30 % della retribuzione mensile netta a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione dal lavoro in cassa integrazione.
La Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Società che, tra le altre cose, aveva censurato la pronuncia di secondo grado per aver riconosciuto il danno alla professionalità da inattività richiamando una giurisprudenza estranea alla fattispecie in quanto riferita alla violazione dell′art. 2103 c.c.
La Suprema Corte, nel respingere la censura della datrice di lavoro, ha in primo luogo osservato che il danno alla professionalità, per sua natura plurioffensivo, richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d′appello, è un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig: il primo è infatti legato, appunto, alla perdita della professionalità, dell′immagine professionale e della dignità lavorativa; il secondo, invece, è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.
Ha poi aggiunto che il danno patrimoniale alla professionalità, per giurisprudenza consolidata, può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che, nel caso di specie, la Corte di merito aveva individuato nella misura del 30%.
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe svolto un accertamento pienamente in linea con la giurisprudenza di legittimità, sullan, sulla prova, ed anche sul quantum (cfr. Cass. 19923/2019 ).
Si rammenta, a questo riguardo, che, secondo tale insegnamento, ai fini della dell′esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, la qualità e quantità dell′attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione ( Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008 ).
L′accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato la lesione della professionalità e l′esistenza di un danno non può essere sindacato in sede di legittimità attenendo, ovviamente, il merito della vicenda.
Inoltre, nella vicenda esaminata dalla Corte, il periodo di forzosa ed illegittima inattività aveva riguardato diversi anni (almeno tre) e, secondo la Cassazione, sarebbe conforme all′art. 2697 c.c. sostenere che tale periodo possa essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.
Si evidenzia poi che qualora "gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione, ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (...) il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (...). In definitiva, il datore di lavoro ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati - anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione" ( Corte di Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 16 dicembre 2022 n. 37021 ).
Ancora Corte di Cassazione Sentenza 20 aprile 2021, n. 10377 , secondo cui: "il protrarsi arbitrario della sospensione del rapporto a causa dellillegittima collocazione in cassa integrazione determina la responsabilità per inadempimento contrattuale del datore di lavoro, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento integrale dei danni subiti, da determinarsi ai sensi dellart. 1223 c.c., commisurandoli, almeno, allentità dei compensi retributivi che egli avrebbe maturato durante lintero periodo di inadempimento.
Ancora Corte di Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 16 dicembre 2022 n. 37021 : "La violazione delle indicate disposizioni sulla indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati criteri di scelta del personale da sospendere e di adozione di meccanismi di rotazione nella sospensione - in assenza di comprovate ragioni di ordine tecnico e organizzativo giustificative dell′adozione di precisi meccanismi alternativi alla rotazione determinati ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 1, comma 8 - comporta - in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte - l′illegittimità del provvedimento concessorio dell′intervento di integrazione salariale e quindi l′illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori stessi , i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l′accertamento, previa disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo di concessione della CIGS, dell′inadempimento del datore di lavoro in ordine all′obbligazione retributiva alla stregua dell′ordinario regime previsto dall′articolo 1218 c.c., essendo venuta meno, quale ragione d′esonero dalle conseguenze dell′inadempimento, l′elevazione al livello dell′impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale", conf. a Cass. n. 19618 del 2011) ed aggiungendo che "il datore di lavoro non ha neanche provato che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto tempo" ; la motivazione, sul punto, non si rivela apparente, in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione, sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell′ipotetico abbattimento del risarcimento derivante dall′applicazione di un periodo minore di cassa integrazione.
Secondo la Cassazione, il danno da inattività per collocazione in cassa integrazione non è affatto differente da quello relativo all′inattività discendente dalla violazione dell′art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili.
Si tratta di un principio evidenziato da una recente Ordinanza della Cassazione (n. 10267 del 16 aprile 2024) che ha sottolineato che la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazione di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta, in ogni caso, discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.
La Corte territoriale, rigettando l′appello principale della società datrice di lavoro ed accogliendo, invece, parzialmente, quello proposto dalla lavoratrice, aveva condannato la prima a corrispondere la somma equitativa pari al 30 % della retribuzione mensile netta a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione dal lavoro in cassa integrazione.
La Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Società che, tra le altre cose, aveva censurato la pronuncia di secondo grado per aver riconosciuto il danno alla professionalità da inattività richiamando una giurisprudenza estranea alla fattispecie in quanto riferita alla violazione dell′art. 2103 c.c.
La Suprema Corte, nel respingere la censura della datrice di lavoro, ha in primo luogo osservato che il danno alla professionalità, per sua natura plurioffensivo, richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d′appello, è un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig: il primo è infatti legato, appunto, alla perdita della professionalità, dell′immagine professionale e della dignità lavorativa; il secondo, invece, è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.
Ha poi aggiunto che il danno patrimoniale alla professionalità, per giurisprudenza consolidata, può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che, nel caso di specie, la Corte di merito aveva individuato nella misura del 30%.
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe svolto un accertamento pienamente in linea con la giurisprudenza di legittimità, sullan, sulla prova, ed anche sul quantum (cfr. Cass. 19923/2019 ).
Si rammenta, a questo riguardo, che, secondo tale insegnamento, ai fini della dell′esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, la qualità e quantità dell′attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione ( Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008 ).
L′accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato la lesione della professionalità e l′esistenza di un danno non può essere sindacato in sede di legittimità attenendo, ovviamente, il merito della vicenda.
Inoltre, nella vicenda esaminata dalla Corte, il periodo di forzosa ed illegittima inattività aveva riguardato diversi anni (almeno tre) e, secondo la Cassazione, sarebbe conforme all′art. 2697 c.c. sostenere che tale periodo possa essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.
Si evidenzia poi che qualora "gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione, ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (...) il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (...). In definitiva, il datore di lavoro ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati - anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione" ( Corte di Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 16 dicembre 2022 n. 37021 ).
Ancora Corte di Cassazione Sentenza 20 aprile 2021, n. 10377 , secondo cui: "il protrarsi arbitrario della sospensione del rapporto a causa dellillegittima collocazione in cassa integrazione determina la responsabilità per inadempimento contrattuale del datore di lavoro, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento integrale dei danni subiti, da determinarsi ai sensi dellart. 1223 c.c., commisurandoli, almeno, allentità dei compensi retributivi che egli avrebbe maturato durante lintero periodo di inadempimento.
Ancora Corte di Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 16 dicembre 2022 n. 37021 : "La violazione delle indicate disposizioni sulla indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati criteri di scelta del personale da sospendere e di adozione di meccanismi di rotazione nella sospensione - in assenza di comprovate ragioni di ordine tecnico e organizzativo giustificative dell′adozione di precisi meccanismi alternativi alla rotazione determinati ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 1, comma 8 - comporta - in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte - l′illegittimità del provvedimento concessorio dell′intervento di integrazione salariale e quindi l′illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori stessi , i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l′accertamento, previa disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo di concessione della CIGS, dell′inadempimento del datore di lavoro in ordine all′obbligazione retributiva alla stregua dell′ordinario regime previsto dall′articolo 1218 c.c., essendo venuta meno, quale ragione d′esonero dalle conseguenze dell′inadempimento, l′elevazione al livello dell′impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale", conf. a Cass. n. 19618 del 2011) ed aggiungendo che "il datore di lavoro non ha neanche provato che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto tempo" ; la motivazione, sul punto, non si rivela apparente, in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione, sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell′ipotetico abbattimento del risarcimento derivante dall′applicazione di un periodo minore di cassa integrazione.